Ho sempre sentito parlare del “destino”.
Anzi, ho sempre sentito discutere sul
destino. C’è chi crede che questo esista, e che scandisca il tempo di ognuno di
noi seguendo l’indice immaginario del lungo romanzo che è la vita. Altri,
invece, pensano che ognuno di noi abbia il potere di determinare tutto quello
che accade; i successi, gli insuccessi, le gioie, le delusioni, tutto. Dopo
quella giornata di fine maggio in tanti dovettero ricredersi.
Siamo sul volo diretto a Manchester,
capitale del calcio inglese. Di lì a poco Milan e Juventus si contenderanno il
titolo di campione d'Europa. Tra i tifosi italiani diretti all'Old Trafford c'è
un ragazzo. Occhialino da professore di storia e filosofia, magro come un
chiodo, e con un aria da buono. Ha la distrofia muscolare, ed è di Milano. Per
lui il rosso e il nero, se uniti, più che due colori sono una religione. Ha un
amore per lo sport che non finisce mai, vorrebbe praticarne uno ma è quasi
impossibile. E' un distrofico.
Arriva un momento nella vita nel quale
qualcosa accade. Un momento nel quale qualcosa si muove, e spesso in direzione
di qualcos'altro. Una luce si accende, ed illumina ciò che fino a qualche istante
prima c'era, ma non poteva essere visto.
A qualche metro da quel ragazzo magro come
un chiodo, e con l'aria da professore di storia e filosofia, ci sono due
ragazzi, anche loro disabili, e anche loro, ovviamente, diretti a Manchester.
"Saranno anche loro milanisti" avrà pensato. Purtroppo per lui non lo
erano, ma due chiacchiere non si negano neanche al "nemico". La
discussione inaspettatamente si fa interessante. Entrambi i ragazzi rivelano la
loro vera identità; non quella di disabili, ma di atleti. Praticano uno sport
che si gioca sulla carrozzina elettrica, con una mazza o un altro attrezzo di
plastica chiamato "stick", per chi non ha forza nelle braccia. Incredibile,
è lo sport dei distrofici.
E' proprio in quel momento che negli occhi
di Alberto Fontana e Francesco Bonifacio nasce il campione italiano di
wheelchair hockey più amato di sempre, Marco
Brusati.
I primi allenamenti confermano che quell’energia, avvertita durante quel primo incontro in aereo, era un indizio. I
ragazzi del Dream Team capiscono
subito che in palestra ha iniziato a “danzare” un predestinato. Eleganza unita
a talento, intelligenza e freddezza, scaltrezza e velocità. Avrà sicuramente
qualche punto debole, ma non si vede. O almeno, non te ne fa accorgere.
L’ultimo campionato ha visto la compagine
milanese chiudere al quinto posto, dopo aver perso il braccio di ferro con i
Dolphins Ancona, ai tempi supplementari, nel match valido per l’ingresso in
semifinale.
L’obiettivo minimo per la stagione 2003/04
è l’ingresso tra le prime quattro d’Italia, ma il ragazzo appena arrivato
permette di sognare in grande. Si sa però, l’agonismo è un’altra cosa. Vincere
richiede la capacità di essere freddo quando serve, di farsi trovare nel posto
giusto al momento giusto, insomma, tutte qualità che Marco possiede. Le
risposte, infatti, non tardano ad arrivare.
Le prime partite sono già una sinfonia. Gli
ingranaggi che permettono di far girare la squadra sembrano già adeguatamente
oleati. Il quintetto base è composto da Rasconi
tra i pali (sempre pronto alla staffetta con Porta), Pintori stick, e il tridente di mazze formato da Alessandro Bruno, Alberto Fontana (leader in campo e fuori di una generazione di
ragazzi che iniziavano a confrontarsi con la distrofia e la disabilità in generale), e Brusati,
ovviamente.
Il girone viene dominato senza alcun
diritto di replica da parte degli avversari, segnando una media di dieci reti a
partita, la maggior parte messi a segno proprio dal numero 8.
Il Dream Team arriva, così, alle fasi
finali del campionato, con la consapevolezza che forse, con quel ragazzo
arrivato all’improvviso, si può davvero sognare in grande.
I quarti di finale vedono i milanesi
contrapposti agli All Blacks di Genova, squadra che ha nei nazionali Callà e
Garofano i suoi interpreti di maggior qualità. I liguri hanno lottato fino
all’ultimo per il primo posto nella fase a gironi, dimostrando di avere le
carte in regola per lottare fino in fondo per qualcosa di importante. L’incontro
è al cardiopalma, ma a spuntarla è proprio il Dream Team.
In semifinale è la volta della matricola
Varese, rivelazione della stagione nata neanche un anno prima. Giocatori
straordinari come Carelli, Fattore, Mutti, Mantiero, Mercuri e Cremona iniziano
a suonare quella sinfonia che diventerà domino assoluto nella seconda metà del
decennio. Non è ancora arrivato il loro momento però. Milano vince ancora, ma
stavolta con un punteggio rotondo. Il sogno inizia a prendere forma. L’ultimo
ostacolo veste la maglia giallo-blu, ed è tra le compagini storiche del
wheelchair hockey in Italia, la seconda “scudettata” di sempre: i Magic Torino.
I piemontesi schierano su tutti il
portiere titolare della Nazionale Alfonso Talarico, e la coppia di mazze Mirko
Tomassini e Francesco Prima. Nomi che non fanno stare esattamente tranquilli.
La finale si gioca su due tempi regolamentari da venti minuti. La prima
frazione vede due squadre nervose muovere le proprie pedine su una scacchiera,
entrambe con la voglia di vincere, ma allo stesso tempo con un incredibile
paura di perdere. Non capita tutti i giorni di giocare “la” partita per
eccellenza. Marco è nervoso, non riesce ad esprimere il gioco che ha incantato
appassionati e addetti ai lavori durante l’intera stagione. Sente la pressione
del momento, sa che, forse, solo lui può decidere questa partita. Durante l’intervallo
capitan Fontana, deus ex machina dei
primi due scudetti targati Dream Team, lo riprende energicamente, chiamandolo a
prendersi le sue responsabilità, quelle che spettano ad un talento fuori dal
comune. Bastava dirlo.
Il secondo tempo è un elogio al “momento
decisivo”, quello dove tutto accade, dove il campione si illumina, e accende la
luce su un sogno che in un attimo diventa realtà. Con due reti e un assist Brusati
riporta Milano sul tetto d’Italia, diventando, inoltre, il primo giocatore di
sempre a vincere il titolo di capocannoniere al primo anno di attività. E
pensare che solo un anno prima si chiedeva se esistesse uno sport per lui.
Brusati alza la coppa al
cielo, il Dream Team è campione d’Italia (2004)
Il predestinato con il numero 8 sulle
spalle viene premiato da coach Fabrizio De Santis, smaliziato stratega romano,
con la convocazione in Nazionale al primo Campionato del Mondo, in programma ad
Helsinki, Finlandia.
E’ con l’affascinante esperienza in
azzurro che Marco stringerà rapporti significativi per la prima volta al di
fuori dell’abituale contesto di vita milanese. Sotto la bandiera tricolore
nascono amicizie fraterne, come quella con i gemelli Lazzari, Marco e Daniele,
avversari solo in campo, mai fuori. O quella con Sonia Veres, portiere dei Blue
Devils Genova, che dopo averlo conosciuto al “Torneo di Muggiò”, nel 2004, non potrà
più fare a meno di una persona con la quale da subito riuscì ad instaurare un
rapporto di complicità assoluta. La passione per l’hockey era il leit motiv delle loro giornate. Ne
parlavano sempre. Di presenza prima e dopo gli incontri di campionato, o ai
raduni in Nazionale (quelli di preparazione agli Europei in Belgio del 2008),
al telefono, o addirittura in videoconferenza su Skype. Si facevano pronostici
per la stagione che doveva iniziare, e commenti sui punti di forza dei diretti
avversari. “Per Marco - a detta proprio di Sonia – la rivalità più sentita era
quella con gli Skorpions Varese”, verso i quali avvertiva un fisiologico timore
unito a rispetto, dato dalla vicinanza geografica e dall’indiscussa qualità
dell’avversario.
In campo esplosivo ed esuberante. Fuori
dal campo ragazzo tranquillo, sveglio, dai modi eleganti, sempre pronto a
scusarsi e ad ammettere i propri errori, anche se un po’ permaloso. Il valore dell’amicizia
per Marco è una filosofia di vita, e non squallida retorica. E’ ancora vivo il
ricordo, nei ragazzi della U.I.L.D.M. di Milano che erano con lui durante
quella vacanza, di quella sbronza di gruppo che vide nel campione, con l’aria
da professore di storia e filosofia, l’inaspettato protagonista. Si lasciò
andare ad una serie di esternazioni inattese da un ragazzo con quel livello di
autocontrollo. Ogni momento era condivisione di qualcosa; emozioni, interessi,
divertimento, confidenze, dolori, e a volte preoccupazioni. Come quella provata
nel 2007 dalle persone che volevano bene a quel ragazzo dal talento magnetico,
anno del primo stop per problemi cardiaci. Così forte e, allo stesso tempo,
così fragile.
Aveva iniziato a vincere troppo presto,
forse. L’ingresso di Brusati nel wheelchair hockey è stato vissuto e raccontato
come una bella favola, una di quelle che si raccontano ai bambini prima di
addormentarsi. Favola, però, che ha dovuto fare i conti con la realtà, con i
suoi risvolti a volte aspri, e con le pressioni che da questa spesso derivano.
In poco tempo era diventato l’uomo guida di una squadra che voleva tornare stabilmente
ai vertici dell’agonismo. Era dato per scontato che quel giocatore venuto dal
nulla, in grado di vincere scudetto e titolo di capocannoniere del campionato a
meno di un anno dalla prima partita ufficiale, fosse in grado di far sognare anche
con la maglia azzurra. Marco, però, era divorato dall’ansia, dalla paura di non
farcela, di non essere all’altezza del ruolo del quale era stato insignito a
furor di popolo, soprattutto dopo aver preso il testimone di leader dallo
storico capitano Alberto Fontana. Sì, quello del primo incontro in aereo.
Le stagioni successive all’anno magico
dello scudetto vedranno il numero 8 laurearsi più volte cannoniere principe del
campionato italiano. Le sue oltre 300 reti in cinque anni porteranno il Dream
Team per due volte sul podio, con il terzo posto del 2005 ed il quasi
“bis-tricolore” del 2006, amaramente sfumato, ai rigori, contro i romani
guidati dall’ex Commissario Tecnico De Santis. Una volta rientrato, nel 2008,
dopo i problemi al cuore, contribuirà per la seconda volta alla conquista del
bronzo europeo da titolare. Ma non è più lo stesso Marco. Il titolo di campione
d’Italia, per Milano, si allontana sempre di più. Le ultime due stagioni (2008
e 2009) dimostrano le difficoltà dei giallo-neri, legate al fatto di essere
competitivi solo quando il proprio campione è al massimo della forma, fisica e
mentale. Alcune voci accostano sempre più di frequente il suo nome a quello dei
Thunder e degli amici romani, con i quali provare a rivivere quel sogno distante ormai cinque anni non è poi così impossibile. I compagni del Dream
Team sono ancora oggi convinti che alla fine Marco sarebbe rimasto con loro, a
lottare con la stessa maglia, con la stessa voglia, “perché quei pensieri non
erano dettati da un disamore improvviso per la sua squadra, ma dalla sensazione
inconscia, o forse anche avvertita – come racconta Riccardo Rutigliano – che
gli rimanesse poco tempo”.
Il 19 luglio 2009 il cuore del campione
smette di battere, e con il suo, per un attimo, anche quello di tutte le
persone che avevano imparato a sognare grazie a un signore con il numero 8
sulle spalle. Il più amato di sempre, Marco Brusati.
“Un
caro amico di tante avventure. Uno straordinario compagno di gioco. Abbiamo vinto
tante battaglie insieme. Un campione che non ha mai mollato, vincere era la parola d’ordine. Al suo
fianco anche nei momenti più difficili. Rimarrà sempre vivo il suo ricordo nel
mio cuore. Grazie Marco.”
(Alessandro
Bruno – compagno di squadra al Dream Team Milano)
“E’
difficile esprimere a parole l’affetto che abbiamo provato, e che continuiamo a
provare nei suoi confronti. La nostra amicizia è riuscita a superare ogni tipo
di rivalità in campo, e questo ci ha permesso di condividere con lui momenti
unici e irripetibili, che rimarranno per sempre indelebili nel nostro cuore.”
(Daniele
Lazzari e Marco Lazzari – compagni di squadra in Nazionale)
“Il
Brusa, come lo chiamavano tutti, era
un uomo eccezionale. Sapeva farsi volere bene da tutti, timido ma allo stesso
tempo spontaneo e sincero. Ho avuto il piacere di conoscerlo come persona e
come giocatore, da avversario ma anche da compagno di squadra in Nazionale. Mi
ha insegnato molto, e posso dire di essere migliorato tanto anche grazie a lui.
Un campione dentro e fuori dal campo, che sapeva rispettare qualsiasi
avversario con i fatti, e non con le parole. E’ stato un vero esempio per
tutti, non ci dimenticheremo mai di lui. Sono fiero di averlo conosciuto, e di
aver vissuto forti emozioni al suo fianco.”
(Tiziano
Fattore – compagno di squadra e capitano della Nazionale)
“Ricordo
Marco come fosse ieri. E’ sempre stato il migliore nell’hockey. Non
dimenticherò mai i suoi insegnamenti, le partite giocate insieme in Nazionale,
e le belle serate trascorse a Milano, in una buona pizzeria con grandi amici.
Non dimenticherò mai il suo sorriso e il suo affetto, sempre rivolto verso gli
altri, e soprattutto verso il suo sport. Per sempre nel cuore.”
(Andrea
Ronsval – compagno di squadra in Nazionale)
“Ricordo Marco
come se fosse ancora con noi. Ragazzo dal carattere simile al mio, timido, ma
sempre pronto a riconoscere il valore di un altro giocatore. Mi faceva tanti
complimenti per come giocavo, gli piacevo molto. Mi stimava tanto quanto lo
stimavo io. La prima volta che l'ho visto giocare mi sono venuti i brividi. Era
perfetto in tutto, giocatori così nascono una sola volta. Giocare contro di lui
mi ha emozionato, e motivato a dare sempre di più. Mi sarebbe piaciuto molto
giocare al suo fianco in Nazionale. Il suo ricordo rimarrà per sempre
indelebile.”
(Tommaso
Liccardo – giocatore dei Rangers Bologna)
“Un
grandissimo atleta, che ha saputo essere campione sia sui campi di wheelchair
hockey, con uno stile tutto suo, che non può essere paragonabile a quello di
nessun’altro giocatore, ma anche fuori dal campo, con la sua grande sportività
e il grande rispetto per l’avversario.”
(Giovanni
D’Aiuto – giocatore e capitano dei Red Cobra Palermo)
“Ho
avuto l’onore di affrontarlo come avversario e poi di essere suo compagno in
Nazionale. Era un campione in tutto, riservato, umile, e un fenomeno in campo.
Era uno spettacolo vederlo giocare, un punto di riferimento per tutti quei
ragazzi che, come me, si avvicinavano a questo sport. Giocatore di assoluta classe,
eleganza, lealtà sportiva, che manca, oggi, a tutto il nostro movimento. Uno
dei pochi veri signori del wheelchair hockey, che adesso vive nei nostri cuori.”
(Giuseppe
Sanfilippo – compagno di squadra in Nazionale)
“Non
so come si possa descrivere un campione come il Brusa. Credo che farlo a parole
sia semplicemente impossibile. Fenomeni del genere, purtroppo, capitano poche
volte. Di lui mi ricordo la tenacia, la voglia di lottare e di non mollare mai
che mostrava in campo. La sua ultima partita è stata proprio contro di noi,
solo un paio di mesi prima di lasciarci. Eravamo stati sopra tutta la partita,
e avevamo il pieno controllo della gara. Ma quando pensavamo di avercela fatta,
quando tutto sembrava finito, il Brusa si è svegliato, decidendo che quella
partita la dovesse vincere Milano, o meglio, che l’avrebbe vinta lui. Così è
stato. Fenomeno.”
(Mattia
Muratore – giocatore degli Sharks Monza)
“Marco come atleta ha rappresentato
l’apice di questo sport. La lealtà, la correttezza, e l’umiltà sono state le
armi vincenti di un atleta che ha saputo insegnare i veri valori del wheelchair
hockey. Difficile da imitare, ma semplice è inseguire il suo insegnamento.”
(Antonio Spinelli – Presidente
Federazione Italiana Wheelchair Hockey)